Numero 7 • Giappone
Il culto dell'imperfetto. Studio Ghibli e tutto il resto. Pesce sottaceto: un haiku di Bashō.
Buongiorno e buona domenica a tutti!
Oggi parliamo di Giappone, sperando di potere andarci o tornarci presto. Mi sono lasciato un po’ andare, non ho scritto proprio un racconto, è una prosa non meglio definita con dentro ricordi e riflessioni e foto da un viaggio di qualche anni fa. Spero vi piaccia :)
Dopo questo numero, mi prenderò una pausa di un mese così da pensare meglio al futuro di questa newsletter: ci risentiamo a maggio.
Buona lettura!
La prosa non meglio definita
Il culto dell’imperfetto
Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
— T. S. Eliot, La terra desolata (The Waste Land).
In questo periodo di lockdown, come tutti, sto lavorando da casa. La mia compagna ed io abbiamo organizzato le stanze in modo da avere una specie di ufficio, dove lavoriamo, separato dalla camera da letto, che rimane invece il luogo privato dove (in teoria) il lavoro non entra. La stanza-ufficio è quella che dà sulla strada; viviamo in uno di quegli appartamenti londinesi che vengono definiti terraced: case basse, al massimo di due piani, tutte attaccate in fila, tutte uguali. C'è una grande finestra semi-esagonale da cui possiamo vedere la strada e i passanti (e i passanti e la strada possono vedere noi). Lì, sul marciapiede opposto, c'è un albero alto quanto le case; dalle linee orizzontali del tronco si può facilmente intuire che appartiene al genere botanico prunus. All'inizio del mese, nel giro di pochi giorni, ho visto i suoi rami spogli riempirsi di delicati fiori bianchi, a formare una chioma albina che nel sole del tramonto ha rallegrato molte mie serate. Poi, rapidi come erano apparsi, i petali hanno cominciato a cadere (sembravano neve), e le giovani foglie, di un verde chiaro e vivo, li hanno sostituiti sui rami, e d'un tratto sembrava già che la primavera fosse passata, spintonata via sgarbatamente dall'estate.
Come ci ricorda poeticamente anche T.S. Eliot, la fioritura e sfioritura del mondo naturale è qualcosa che avviene tutti gli anni. Ma in questa occasione mi ha riportato alla memoria un viaggio che ho compiuto in Giappone esattamente due anni fa, nel mese di marzo del 2018. Per uno di quei casi di ironia della sorte di cui farei volentieri a meno, il cambiamento climatico sta anticipando la fioritura dei ciliegi e degli altri alberi del genere prunus, sicché, nei miei ultimi giorni a Tokyo, ero riuscito a godere dell'inizio della stagione dell'hanami. Questa è la parola usata dai giapponesi per indicare la tradizionale usanza di godere della bellezza della fioritura primaverile, in particolare quella dei sakura (ossia i Prunus serrulata, da noi anche noti come ciliegi giapponesi).
La memoria di quel viaggio e di tutte le impressioni che ho raccolto è stata riaccesa anche dalla lettura, proprio nelle ultime settimane, di uno straordinario saggio del filosofo britannico Julian Baggini, che si chiama How The World Thinks. In questo libro, che purtroppo non è stato ancora tradotto in Italia, Baggini riesce nell'ardua impresa di compilare una storia della filosofia globale accessibile a chiunque abbia fatto un minimo di attenzione durante le ore di filosofia del liceo. Nelle quattro parti in cui è diviso, Baggini racconta come le filosofie dell'India, della Cina, del Giappone, del mondo islamico, della Russia e delle tradizioni orali dell'Africa e dell'Oceania cerchino di rispondere alle domande fondamentali sulla natura del mondo e della vita umana: come facciamo a conoscere e comprendere la realtà? Che cos'è il mondo, qual è la sua natura ultima? E noi, chi siamo? Come dobbiamo vivere su questa terra?
Nonostante la mia fascinazione con la filosofia indiana, e nonostante anche le idee delle altre culture di cui ho letto nel libro mi abbiano colpito e fatto capire molto sulle differenze fra l'Occidente e il resto del mondo (in Russia, ad esempio, la filosofia non è praticamente mai esistita: un fatto a cui non avevo mai fatto caso), non ho potuto fare a meno di constatare che la filosofia e cultura giapponese sono quelle che più di tutte sento vicine al mio animo e al mio modo di vedere il mondo. Indubbiamente, per qualunque occidentale visiti il Giappone o venga a contatto con la sua cultura attraverso i fumetti, il cinema, i videogame o una delle altre decine di forme d'arte che si sono inventati nel corso dei secoli, il suo fascino particolare sta in questo: sembra un paese occidentale e allo stesso tempo sembra il completo opposto. È un paese tecnologicamente avanzato, urbanizzato, moderno e democratico come quelli europei, eppure la sua cultura è quanto di più esotico e alieno alla nostra ci possa essere.
Riflettendo sulle somiglianze fra il Giappone e l’Italia, in particolare, mi sembra di poter disegnare molti paralleli intriganti. Il primo ha a che fare con la cucina: fra tutti i paesi che ho visitato, e credo che anche chi ha viaggiato più di me non avrà molto da ridire, il Giappone mi è parso l'unico che potesse competere con l’ossessione italiana per il cibo. Non sto parlando solo di alta cucina (Tokyo è da 13 anni la città con più ristoranti stellati al mondo, e Kyoto e Osaka sono al terzo e quarto posto nella classifica), ma anche della cultura popolare, dei ristoranti dove vanno tutti, delle bancarelle di cibo in strada, dei mercati, delle specialità regionali. Ad accompagnarmi per il Giappone c’era mio fratello, e uno dei nostri obiettivi principali era spuntare tutte le caselle di una lunga lista di piatti da provare: dal sushi al ramen, dal manzo di Kobe all'odonomiyaki, dal tempura al tonkatsu, la varietà di materie prime e tecniche di cottura giapponese è semplicemente sbalorditiva. Poi ti trovi davanti anche cose come queste, e non sai bene cosa stai mangiando, e lì vabbè, ti devi un po’ lanciare.
Il secondo parallelo fra Italia e Giappone è un atteggiamento presente nella cultura del cibo, ma che penso possa generalizzarsi ad altre aree dell'attività umana, un atteggiamento che io ammiro e trovo particolarmente speciale: l’amore per l’artigianato. La parola artigianato è qui da intendere nel suo senso più ampio: si tratta di un amore per le cose fatte bene, una cura dei dettagli e del processo di creazione che vede nel processo il fine stesso dell’attività. Quando penso a marchi italiani come Bialetti o Alessi, ma anche Ferrari o Ducati, che sono stati in grado di unire armoniosamente funzionalità ed estetica; quando penso alla grande tradizione degli artigiani italiani del passato, come il liutaio Antonio Stradivari e l’orafo Benvenuto Cellini, i quali hanno creato oggetti che nessuna macchina industriale moderna è in grado di replicare; e quando poi metto a confronto questi alla celebre passione giapponese per le arti e le tecniche più eterogenee, dalla cerimonia del tè alla composizione dei mazzi di fiori, dalle macchine fotografiche Nikon e Canon alle moto Honda e Yamaha, dal kintsugi alle spade dei samurai, allora mi sembra di intravedere questo comune amore per la materialità, per la trasformazione armoniosa e abile di materie prime in oggetti allo stesso tempo utili e belli. In tutti i paesi del mondo c'è un po’ di questo atteggiamento (anche i francesi hanno una grande passione per il vino fatto bene, e non è che la Samsung coreana faccia dei prodotti brutti o esclusivamente per profitto), ma mi pare che in Italia e in Giappone abbia trovato espressione particolarmente felice, pur essendo le due culture così diverse in tantissimi altri aspetti.
Infine, l’ultimo parallelo fra Italia e Giappone che mi è venuto in mente ha a che fare con il territorio: entrambi i paesi si trovano in un’area geologicamente vivace, che ospita vulcani attivi ed è soggetta a frequenti terremoti, alcuni dei quali hanno avuto in passato conseguenze disastrose. C’è qualcosa di struggente, di romantico, e anche di inspiegabilmente stupido, nel continuare a vivere in un luogo che si sa non essere affatto sicuro dal punto di vista geologico. Mentre i nostri vicini in Francia e Germania possono vivere vite tranquille nei loro noiosi paesi pianeggianti e collinosi, da migliaia di anni gli abitanti della nostra penisola hanno scelto e continuano a scegliere di vivere con l’angoscia latente che qualcosa, prima o poi, andrà terribilmente male; e lo stesso vale per i giapponesi. Allora viene da chiedere se non ci sia una certa attrazione per il pericolo a unire i due popoli, una fascinazione per la fragilità della vita (espressa in poesie come La Ginestra di Leopardi o nelle vedute del Monte Fuji del pittore Katsushika Hokusai): chiamiamolo anche un perverso istinto di morte. O forse, i paesaggi sono così sublimi e ricchi di risorse naturali e culturali che le persone sono disposte a prendersi il rischio di esser vittima di catastrofi pur di continuare a godere della loro bellezza.
In effetti, uno dei capitoli del libro How The World Thinks dedicato alla filosofia morale giapponese si intitola Transience, ossia transitorietà o impermanenza. C’è nell’animo giapponese una sensibilità molto acuta per il passaggio delle stagioni, come testimonia la secolare tradizione di ammirare la fioritura dei ciliegi, che si allarga a considerare anche la più generale fragilità della vita umana. Ma quello che i giapponesi tendono a fare diversamente da noi occidentali, dice Baggini, è pensare più attraverso le loro esperienze sensibili che attraverso concetti astratti. La loro filosofia è estetica nel senso originario del termine, cioè relativa alla conoscenza sensibile. Invece di concettualizzare tutto e pensare che la ragione possa da sola dirci come vivere, il giapponese presta grande attenzione alla propria esperienza, pensa con le emozioni, e agisce di conseguenza. Per spiegare, Baggini cita Il libro del tè (1906) di Okakura Kazuko, un testo che celebra la cultura della cerimonia del tè:
Il Tèismo è un culto fondato sull’adorazione del bello in mezzo agli squallidi fatti dell’esistenza quotidiana. [...] È essenzialmente un culto dell'imperfetto, un fragile tentativo di realizzare qualcosa di possibile in questa cosa impossibile che è la vita.
L’espressione che i giapponesi usano per definire questa sensibilità all'imperfezione è mono no aware, e favorisce una fondamentale modestia nel comportamento, una consapevolezza di quanto siano piccole e insignificanti le cose che facciamo, ma anche di quanto siano belle le cose piccole e insignificanti.
Quindi, guardando fuori dalla mia finestra semi-esagonale gli ultimi petali bianchi di un ciliegio londinese, rinchiuso in casa da mesi, cerco di ritrovare e rinforzare almeno un po’ la mia giapponesità, prestando attenzione e dando importanza ad atti semplici come lavare i piatti, rifare il letto, e anche scrivere una newsletter.
Nuovi stimoli
Studio Ghibli e tutto il resto
Presto si potrà tornare a viaggiare, presto il Giappone riaprirà le sue porte (quest’estate, da quanto ho capito, le Olimpiadi di Tokyo le potremo guardare solo in tivù), allora ecco qua alcuni stimoli per farsi venire ancora più voglia di andarci:
Il blog di Flavio Parisi su Il Post parla del Giappone di oggi. Parisi insegna italiano a Tokyo ed è bello sentirlo raccontare come vanno le cose in Giappone in questi mesi di pandemia.
Tampopo, un ramen western, film comico giapponese eccezionale dove imparerete tante, tantissime cose sul cibo e sulla cultura nipponica; e riderete pure un sacco.
L’eleganza è frigida, un libro-reportage di Goffredo Parise che mia madre mi ha regalato prima di partire per il viaggio. Il Giappone visto da un italiano con una sensibilità e una penna straordinarie: un libro breve e bellissimo.
Gli eccezionali cartoni animati dello Studio Ghibli (sopra tutti La città incantata), che sono tutti su Netflix (almeno aprendo Netflix da qua in Inghilterra) e che sono molto meglio dei film della Disney.
L’uomo artigiano di Richard Sennett è un saggio che, se tutto quel discorso attorno all’idea di fare le cose bene per il gusto di farle bene vi ha appassionato, vi piacerà molto.
La poesia
Il pesce sottoaceto
Sapete tutti cos’è un haiku, no? Sono quelle poesie giapponesi molto brevi ed essenziali, che si fanno comporre spesso anche ai bambini perché sono facili (se non ti curi troppo di seguire le regole) e basta guardare un po’ fuori dalla finestra per farsene venire in mente una.
Uno dei grandi maestri dell’haiku, se non il maestro, si chiama Matsuo Bashō ed è vissuto fra il 1644 e il 1694. Quel periodo della storia del Giappone, dal 1603 fino al 1868, viene chiamato Periodo Edo: la famiglia Tokugawa aveva preso il potere e aveva trasferito la capitale a Edo (che oggi si chiama Tokyo). Aveva pure deciso di isolare completamente il paese da qualsiasi contatto con l’esterno, una politica nota come sakoku che purtroppo sembra essere tornata in voga negli ultimi tempi.
Bashō corrisponde esattamente allo stereotipo di poeta monaco girovago giapponese che avete tutti in mente: girovagava, meditava, osservava i petali che cadono dalgi alberi, aveva un po’ di discepoli, scriveva qualche poesia. Che vita, eh? Bellissima. E infatti secondo me aveva anche un ottimo senso dell’umorismo. Ecco qui un suo bell’haiku per concludere la newsletter.
木のもとに
汁も膾も
桜かなki no moto ni
shiru mo namasu mo
sakura kana
Sotto l’albero tutto si copre
di petali di ciliegio,
pure la zuppa e il pesce sottoaceto.
Ciao, e buona domenica!